Pubblicato da Arteventi news il 1 Novembre 2019
Dopo un primo periodo di necessario acclimatamento, la radio cominciò ad essere oggetto di interessanti dibattiti. Già agli inizi degli anni ’30, appena qualche anno dopo che la URI (nonna della RAI) tenesse a battesimo il prodigioso mezzo di comunicazione, ci si interrogava sulla sua natura di mezzo a disposizione del pubblico, “provvidenziale” come invocato da Marconi in primis. Si era ben coscienti che la radio potesse diventare la salute del mondo, la liberazione dalle catene di guerra, odio e malinteso.
Tuttavia in questa luce la radio avrebbe avuto senza dubbio il ruolo che l’uomo, in senso lato, riteneva opportuno assegnargli. Bastava tradirne lo scopo ed il carattere per trasformarla da mezzo provvidenziale in espediente d’alta speculazione commerciale e politica da un lato, a organetto musicale dall’altro. In questo quadro giocavano un ruolo di primo piano almeno due elementi: l’entità del canone e la qualità dei programmi. Riguardo al primo, se la radio si fosse snaturata ogni giorno di più in un sollazzo domestico ad alta tassa, ben pochi si sarebbero permessi il lusso di possederla. Forse si richiedeva alla pubblicità di accollarsi qualche onere in più per sgravare il canone.
La passione radiofonica, di fatto, non aveva ancora fatto crescere il pelo sulla coscienza dei radioascoltatori. A quei tempi si portavano i propri cani al macello per l’inasprimento della relativa tassa. Specularmente si sarebbero visti uomini capaci di smontare il ricevitore se la pochezza dei programmi, e gli alti costi di gestione, li avessero convinti. Dalle riviste specializzate si levava un richiamo all’EIAR (mamma della RAI) affinché tenesse in debito conto questi aspetti. Si chiedeva, in articolare, che la radio fosse meno bottega e più scuola e gioi per tutti affinché, neanche lontanamente si potesse evocare lo spettro che la radio, più che una conquista fruibile da tutti, fosse ritenuta un lusso per pochi.