RADIO LAGER PER SENTIRSI LIBERI – RACCONTO

E’ con grande piacere che propongo un racconto che ho scritto da tempo. I tempi ed il contesto mi suggeriscono di condividerlo, sperando che possa essere di gradimento. Gli acquarelli che accompagnano lo scritto sono tratti dalla pubblicazione di Giuseppe Novello – STEPPA E GABBIA – Mondadori editore.

Buona Lettura !!!

Luigi, da sempre, aveva la passione per il collezionismo e la conservazione delle sue cose.  Finiva per non buttare via niente, forse per paura di perdersi, lui stesso, nei meandri del tempo. La famiglia, benché non numerosa, e una casa grande ma non grandissima, non consentivano di esprimere la sua vocazione nei piani dove si viveva abitualmente. E fu così che, gioco forza, ha iniziato ad utilizzare la soffitta per stivare quanto ritenuto opportuno.

Era proprio contro corrente: a differenza della maggior parte delle persone stava riempiendo la soffitta delle cose che mai e poi mai avrebbe pensato di non utilizzare più. Ma con il passare del tempo la soffitta non era solo un luogo fisico dove alloggiavano le sue cose, era il posto dove si poteva rifugiare, rivedere e gustare quanto aveva preservato dall’oblio. Non aveva la necessità di renderne conto a qualcuno. In quell’ambiente il mondo sembrava essersi fermato.

I primi anni del novecento vivevano attraverso il suono di un fonografo, intriso di un fruscio tutt’altro che fastidioso. Gli anni ‘40 attraverso le venature della impiallacciatura di due meravigliosi comodini, appartenuti ai suoi genitori. Gli anni ‘50 erano adeguatamente rappresentati da un numero imprecisato di dischi. E così via. Per non parlare delle centinaia di libri e decine di cassette con documenti e fotografie.

Quando non aveva niente da fare, o sentiva di non aver niente da fare, se ne andava in soffitta, meglio se all’insaputa dei familiari. Ci aveva sistemato una poltrona, un tavolino ed una lampada, insomma un piccolo studio tutto per lui. In assenza di stimolo poteva sempre contare sul suo fedele mangiadischi ed ascoltava qualche canzone dell’epoca. Altrimenti si prendeva un libro da leggere o, a giro, una scatola con documenti e foto da rivedere, rimettere in ordine, sistemare.

Bastava fare il giro della stanza per ripercorrere quasi un secolo di vita.

La sua soffitta non era più solo un luogo fisico, ma una condizione, uno stato d’animo, un ambiente che, con i suoi rumori, e soprattutto i suoi silenzi, lo riportava dove avesse voluto. Quando saliva le scale assisteva alla progressiva rarefazione dell’aria, neanche  andasse in orbita!

I tempi si facevano meno pressanti e tutto sembrava rallentare, la dimensione umana acquisiva maggiore significato, lo stress della vita quotidiana si allontanava, i problemi del lavoro sembravano essere così lontani ed irreali da perdere peso.

La soffitta era per Luigi come il binario “nove e tre quarti” per Harry Potter:  un portale verso una dimensione diversa, non facilmente comprensibile da tutti.

Quella domenica mattina avrebbe avuto tante cose da fare al punto da non sapere da dove cominciare: tagliare la siepe, lavare la macchina, sistemare un portalampade o andare a fare la spesa? Presto detto: andare in soffitta. Quando non sapeva come regolarsi aveva sempre la sua via di fuga. Non appena arrivato, sistematosi sulla poltrona, iniziò a girare il collo, a mo’ di periscopio, per vedere cosa poter fare. Lo sguardo, pigro e svogliato, si posò su una scatola di latta per biscotti della quale non ricordava il contenuto. Dopo averla presa tra le mani poté constatare una pesantezza non ordinaria, quanto meno non fisiologica, alimentando la sua già non banale curiosità.

Appena aperta, la sorpresa non fu inferiore alle aspettative. C’era un vero e proprio arsenale: decine di pallottole calibro 7.62 nato, due bengala utilizzati, una maschera per bazooka, alcune suppellettili militari, manuali di fucili Garand, FAL e altri. Il tutto corredato da alcuni articoli di giornale e un manoscritto consumato, reso alquanto poco visibile sia dalle pieghe della carta che dalla stanchezza dell’inchiostro. Non aveva conoscenza di questa scatola o, quanto meno, non gli ritornava in mente. Più di tutto lo incuriosiva il manoscritto che, con grande sorpresa era opera di suo padre, anni dopo la fine della guerra. Dopo essersi seduto, accompagnato da un refrigerante bicchier d’acqua, iniziava la lettura di quel documento, per la prima volta. Lo aveva scritto Franco, suo padre, ufficiale dell’esercito italiano, morto qualche anno prima per malattia. Era stato internato in un campo di smistamento, dopo essere stato catturato dai tedeschi. Era un capitano di fanteria. La vicenda ha inizio in una notte del settembre 1943 quando, insieme ad altri ufficiali, stanchi ed assonnati, aspettava di passare il controllo per entrare nell’Oflag[1] XV in una località austriaca tristemente famosa. Era insieme a diverse centinaia di ufficiali italiani e nelle ultime quattro notti aveva dormito pochissime ore perché in viaggio. Non vedeva l’ora di mettersi in orizzontale, anche se era ben conscio di cosa l’aspettava. Ma lui era abituato a prendere le cose per gradi. La fase di smistamento stava procedendo velocemente e dalle file più avanti arrivavano notizie poco confortanti: veniva sequestrato tutto quello che si aveva addosso e si ammassavano le persone nell’ordine di trenta per volta in strutture che, massimo, ad essere concedenti, ne avrebbero potute accogliere la metà. Il panico si distribuì non in modo omogeneo. Chi portava con sé qualcosa da mangiare e bere penso bene di avvantaggiarsi. In questi casi la solidarietà la fece da padrona incoraggiando un processo di sapiente condivisione. Ma un gruppetto meno vicino a Franco faceva registrare una inquietudine alquanto singolare. Sembrava non avessero niente da spartirsi ma si agitavano alquanto. Si voltavano continuamente, confabulavano in modo compulso, ma non si rendeva conto del perché. Si incuriosì perché, fatti i dovuti conti, considerando le suddivisioni per gruppi che stavano facendo più avanti, era probabile che avrebbe potuto condividere con loro l’alloggio in corso di assegnazione. La curiosità di Franco venne presto fugata: il gruppetto aveva con sé una radio e stava tentando di occultarla per portarla dentro gli alloggi, ben consci che non avrebbero passato facilmente il controllo. Lo strumento sarebbe stato particolarmente utile consentendo a tutti di conoscere le sorti e gli accadimenti di quella dannata guerra. A quel punto vorrebbe contribuire ma non sa come. Poi la folgorazione: vicino a lui c’era un cappellano militare con la tonaca. A conti fatti la radio poteva essere occultata sotto la tonaca, bastava trovare qualcosa per legarla sulla coscia. Dopo aver fatto due calcoli si rende conto che la lunghezza può essere coperta dalla sua cintura e da una stringa della scarpa. Per essere sicuro, intanto prendeva la cintura e la univa con le sue due stringhe. Poi, dopo essersi avvicinato al cappellano, illustrava la strategia ottenendo la sua immediata e generosa complicità.

Il secondo passaggio, molto più complicato, era la proposta al gruppetto che possedeva la radio e, qualora d’accordo, l’operazione di inclusione e ancoraggio dell’apparecchio sotto la tonaca. Ci si accordò subito, complice la disperata situazione nella quale versavano. Per assicurare il successo qualcuno di loro si finse ubriaco destando l’attenzione delle guardie più vicine. Nel frattempo l’altra parte del gruppo ancorava la radio alla coscia del cappellano. La prima parte del piano era andata a buon fine. Restava la seconda: il passaggio ai controlli.  Per fortuna tutto andò bene e il gruppo, come previsto, si ritrovò insieme, ben stipato ma comunque sereno. Dopo un meritato riposo si ritornò tutti sul bene più prezioso dell’alloggio: la radio. Era necessario trovare un nascondiglio adeguato, individuare un filo per fare l’antenna e l’alimentazione. Ognuno dei trentuno occupanti si diede da fare, dopo una opportuna suddivisione dei compiti che teneva conto delle singole inclinazioni ed esperienze di ciascuno di loro. Al termine della giornata successiva le soluzioni erano a portata di mano. Si decise di scavare una buca e nascondere la radio sotto terra. Per l’alimentazione e l’antenna si penso di sacrificare il filo elettrico che portava l’alimentazione alla terza lampada del camerone. Il primo spezzone doveva servire per alimentare la radio, il secondo per l’antenna. Ci si organizzò anche per rimettere a posto il tutto nel giro di pochi secondi. Da vero e proprio commando ciascuno aveva il suo scopo, con tanto di rimpiazzi all’abbisogna, fino al terzo livello. Una volta concordato il da farsi fecero varie prove per arrivare al miglior tempo possibile: 41 secondi, stando ai conti di Mauro. Trentanove secondo Fernando.

Quando si doveva accendere la radio veniva dissotterrata. Il filo della corrente che andava alla terza lampada, solo intrecciato, era suddiviso in due. Il primo spezzone, proveniente dal generatore del campo, si attaccava alla alimentazione della radio. Il secondo,  collegato tra l’apparecchio e la finestra di ferro, fungeva da antenna. Al termine della audizione era necessaria l’operazione contraria: stacco dei due fili, intreccio e ripristino della alimentazione alla terza lampada a cui seguiva l’interramento. Il tutto confortato dalla cortina di un impeccabile servizio di guardia il cui compito era prezioso a dir poco. Non erano infrequenti i casi in cui bisognava interrompere l’ascolto per l’arrivo di militari tedeschi.

Le giornate passavano scandite tra un ascolto ed un altro, soprattutto di notte. Le attese erano febbrili, così come le aspettative di alcuni fidati occupanti le altre camerate. Le notizie si condividevano con chi era possibile e la radio divenne un’importante icona dell’Oflag. Gli venne anche dato un nome: O.RA., acronimo di “Operazione RAdio”, ma anche sinonimo, volutamente fuorviante,  di “adesso”. Quando si voleva parlare della radio si nominava  “O.RA.”, proprio per non far capire ad altri di cosa si stesse discutendo.  Piano piano si utilizzarono anche frasi in codice. Su questo Franco era un maestro. Ne aveva coniate tantissime, ma le più utilizzate erano:

O.RA. non posso – non è possibile ascoltare la radio;

Arriva O.RA. – fra poco si ascolterà la radio;

O.RA. o mai più – se non si ascolta adesso non ci saranno le condizioni per farlo nel prossimo futuro;

Fra tre O.RA. – l’ascolto sarà fra tre ore.

Nei giorni successivi il Commando proseguiva l’ascolto e aggiornava i prigionieri ritenuti meritevoli. Le cose andarono bene, pur tra un’emergenza e un’altra, fino a che l’opera del Cappellano non si rivelò fatale: questi, sempre ben disposto con tutti, finì per condividere le notizie sul possesso della radio con internati sui quali, col senno di poi, non era opportuno riporre fiducia. Scambiarono con le Autorità tedesche la notizia della presenza di O.RA. con il trasferimento verso un Oflag di maggiore riguardo. Per quanto il Commando provò a negare, dopo cinque giorni senza mangiare, furono costretti a consegnare O.RA.. La notizia fece il giro dell’Oflag. Negli ultimi quindici giorni era stata sequestrata una radio simile in un altro ricovero. Le Autorità tedesche, avevano sguinzagliato da giorni alcuni infiltrati con lo scopo di raccogliere notizie e stroncare qualsiasi velleità dei prigionieri. Purtroppo ci stavano riuscendo.

L’evento gelò l’intera camerata. Gli effetti si riverberarono soprattutto nei prossimi giorni. Senza le preziose informazioni ci si sentiva veramente fuori dal mondo.

Nel frattempo era giunta notizia che sarebbero arrivati nuovi prigionieri a breve. Le già precarie condizioni di vita e il già limitatissimo spazio non lasciava presagire niente di buono.

Non c’erano alloggiamenti liberi, le condizioni erano al limite dell’umano e tutto faceva pensare a un peggioramento della situazione. Venne il giorno dell’arrivo. Dopo la triste fase di riconoscimento e controllo, un drappello di sette prigionieri si stava dirigendo verso il nostro alloggiamento e da trentuno saremmo passati a trentotto. La curiosità spingeva tutti verso le finestre cercando di comprendere anticipatamente chi fossero i nuovi compagni e Franco ebbe un sussulto: uno dei sette somigliava terribilmente a suo figlio Luigi. In effetti il figlio si era arruolato da poco tempo, fatta l’Accademia e dislocato su un reggimento al Nord con il grado di sotto tenente. Non aveva lo stesso cognome di Franco. Quest’ultimo non si sarebbe potuto sposare per ragioni di servizio ma, intanto, Francesca sua moglie era rimasta incinta. Per non creare ulteriori turbative Luigi prese il cognome di Francesca. In quel momento, per tutti, erano due perfetti sconosciuti. Quando i sette entrarono si presentarono a tutti gli altri. Luigi e Franco non si tradirono mantenendo un perfetto, quanto sofferto, distacco. Intanto stavano insieme.

Intanto, tornando solo per un momento ai giorni nostri, Luigi sobbalzò dalla poltrona della sua soffitta quando si vide enunciato nel documento scritto da suo padre. Lui si stava leggendo! Ma veramente era stato sottotenente e al tempo stesso prigioniero in quel centro insieme a suo padre Franco? Com’è possibile che avesse rimosso quel pezzo non certo banale della sua vita? Com’è che solo ora stava prendendo coscienza di una parte della sua vita finora a lui sconosciuta? Cosa era successo veramente? Mentre si stava arrovellando nei suoi pensieri, bene pensò di proseguire nella lettura del manoscritto perché forse avrebbe trovato le risposte auspicate.

Spostandoci nello stanzone dell’Oflag dove si trovavano Franco, suo figlio Luigi ed altri trentasei ufficiali italiani, dopo i primi giorni in cui si faceva conoscenza con i nuovi, il gruppo, nel suo complesso, era pervaso da un pessimismo ed uno scetticismo che si sarebbero potuti tagliare con il coltello. Si stavano perdendo le speranze. Le ore, i giorni, le settimane non erano più scandite dalle notizie di quanto stava avvenendo nel mondo. Al tempo stesso i contatti con gli altri gruppi si erano diradati perché non si aveva niente da dire, da raccontare: si stava perdendo la speranza. La mancanza di O.RA. si sentiva e stava lacerando tutti. Dopo una quindicina di giorni qualcuno reagì e inizio a proporre qualche idea. Il capitano Mario Accoliti propose di far trovare un’altra radio. Il tenente Marcello Isoardi lanciò l’idea di rubarne una ai tedeschi al comando dell’Oflag. Il sottotenente Ascenzio Quirini pensò, addirittura, di evadere, rubare una radio tra i civili e riportarla indietro nel campo. Tutte idee alquanto difficili da realizzare ma, quanto meno, avevano riacceso un lume e ridato al gruppo una parola che stava sparendo dal suo vocabolario: la speranza. Tutti i contributi vennero passati al vaglio ma non ci volle molto a ratificarne la irrealizzabilità. Il tutto senza contare che nel campo la corrente elettrica non veniva più erogata negli ambienti dove vivevano i prigionieri, per due ordini di motivi: punire l’affronto e stroncare qualsiasi possibilità di utilizzo di radio.

Pur facendo finta di ricercare una possibile soluzione il gruppo si stava acclimatando verso una oggettiva mancanza di soluzioni. Ad un certo punto, nel bel mezzo di una notte, Luigi si sveglio di soprassalto con un’idea ben precisa: la radio a galena. Si proprio così, la radio a galena non aveva bisogno di corrente elettrica e poteva essere utile allo scopo. Ma dove trovare una radio così? Oppure i materiali per costruirla?  Forse i dubbi mitigavano fortemente l’idea ma ritenne in ogni caso opportuno svegliare tutti i compagni di stanza e coinvolgerli. I trentotto prigionieri si divisero subito su due fronti, quello del si e quello del no ma su una cosa erano d’accordo: la soluzione si sarebbe dovuta trovare all’interno dell’Oflag. Una radio simile aveva un circuito semplicissimo composto da un’antenna, una cuffia, un condensatore variabile composto da lamelle di metallo che si incastrano tra di loro, un condensatore normale ed un cristallo di galena. Quest’ultimo è un minerale che si trova in natura, vero e proprio cuore dell’apparecchio. Il gruppo si diede un obiettivo: ciascuno doveva pensare a come rimediare quanto necessario. Il ragionamento poteva estendersi anche agli eventuali surrogati. Dopo oltre un mese di febbrili ricerche venne elaborato un progetto ritenuto fattibile. Nella discussione si condivisero tutti i dettagli. Per l’antenna si sarebbe preso il filo dalla dinamo della bicicletta del postino tedesco che passava una volta a settimana. Il filo si sarebbe avvolto su un telaio da costruire utilizzando due rametti posizionati a croce e legati da una stringa. Si sarebbe preso anche il filo che andava alla terza lampada, non più utilizzata per assenza di tensione, per amplificare l’effetto dell’antenna. Per la cuffia d’ascolto si pensava ad una scatoletta di latta il cui fondo era opportunamente sagomato per ottenere una membrana sensibile, al cui interno si sarebbe collocata una calamita avvolta da filo.

Il condensatore variabile a lamelle si poteva costruire con strisce di lamiera dei barattoli, separati da celluloide.  Il condensatore normale si sarebbe realizzato utilizzando la carta stagnola dei pacchetti di sigarette, con le cartine delle sigarette stesse e sciogliendo la cera delle candele tra uno strato di carta stagnola e l’altra per isolare. Il cristallo di galena era l’elemento che destava maggiore preoccupazione. Quasi da subito si dovette passare ai surrogati. La scelta cadde sulla grafite. Si pensava a quella presente nelle matite, nella quale si faceva penetrare una lametta da barba. Il filo residuo della dinamo del postino sarebbe servito per collegare i vari elementi del circuito. Ci si mise subito al lavoro ma tra la ricerca dei materiali, le varie prove, gli assemblaggi e quant’altro passarono altri tre mesi. Alla fine, dopo centinaia, se non migliaia, di tentativi, il miracolo. Una sera, intorno alle ventitré, fu possibile ascoltare Radio Londra. Il tenente Mario Galimberti venne subito precettato per la sua conoscenza della lingua inglese.  Ci si allineò con il mondo esterno contribuendo a ravvivare il fuoco della speranza fino a quel momento ridotto ad un cumulo di cenere. La particolarità della radio era la sua semplicità di assemblaggio. Una volta ascoltata veniva smontata e i singoli componenti riposti su luoghi differenti per non alimentare sospetti.

Quella radio risultò da un sinergico lavoro di squadra al quale nessuno dei trentotto ufficiali venne meno. Il merito andava a tutti ma soprattutto a Luigi, ed alle sue folgorazioni notturne, che hanno reso possibile l’avvio di un progetto così ambizioso e, al tempo stesso, edificante. Era stata realizzata una radio dal nulla e riallacciati i rapporti con il mondo esterno. Franco era proprio orgoglioso di lui. Avrebbe voluto gridare al vento che quello era suo figlio ma preferì mantenere il segreto e continuare a ricercare lo sguardo di Luigi per dimostrargli il suo orgoglio.

Ma una notte successe l’imprevedibile. Mentre il tenente Galimberti era all’ascolto di radio Londra, e tutti gli altri di vedetta, il silenzio fu rotto da un tonfo sordo alla porta. Tutti erano impietriti e nella situazione sempre più imbarazzante quanto più si sentiva bussare tanto più i trentotto prigionieri non si muovevano. Dall’esterno si sentivano delle grida, indistinte e confuse. Ad un certo punto si diradarono e sembrava che chiamassero Luigi. Quest’ultimo fu colto di sorpresa e, col cuore in gola, si apprestava ad aprire se solo avesse avuto la possibilità di muoversi.

Anche qualcun altro stava chiamando Luigi: sua moglie non nell’Oflag ma dalle scale della sua soffitta. Quest’ultimo sobbalzò dalla poltrona, accorgendosi subito che si era addormentato mentre stava leggendo il manoscritto di suo padre. A questo punto gli si chiariscono tutti i dubbi che aveva, specie del suo eventuale passato militare. Dopo aver iniziato a leggere era stato colto da un colpo di sonno e continuata la storia in sogno, pensando di essere insieme a suo padre. Nel sogno si faceva parte in causa assumendo un ruolo importantissimo all’interno dell’Oflag e facendo in modo che suo padre fosse orgoglioso di lui. Nel frattempo era arrivato a metà del manoscritto. Aveva due possibilità: continuare a leggere, da sveglio, il documento e vedere come veramente fossero andate le cose o lasciar perdere e immaginare che la storia fosse finita come l’aveva sognata.

Non ebbe il benché minimo dubbio: scelse la seconda!

Rispose alla moglie e scese di sotto, ben felice di aver dato ancora una volta a Franco, suo padre, l’immagine del figlio che aveva sempre apprezzato. Il manoscritto fu posizionato nel fondo della cassetta, affinché la vera storia non potesse curvare quello che lui aveva immaginato per suo padre.

[1] L’Oflag era un campo di prigionia in cui venivano internati i prigionieri ufficiali. Gli altri militari erano collocati negli Stalag, campi in cui le condizioni di vita erano più difficili. Il tutto dipendeva dalla gestione dei singoli insediamenti. Con il passare del tempo, e l’incedere della guerra, le condizioni di vita si resero più difficili per tutti, ben lontane dalle Convenzioni firmate dai singoli Stati.