PARLARE ALLA RADIO

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Pubblicato da  Arteventi news il  8 Dicembre 2019 

La radio, all’inizio del suo percorso, non poteva contare su speakers provetti. L’unica esperienza simile già esistente era l’Araldo telefonico. La prima annunciatrice, Maria Luisa Boncompagni, ce la mise tutta dando al suo operato una piacevole e proficua impronta personale. In alcune riviste già si riteneva che “non basta il dolce timbro della voce, ma ci vuol presenza di spirito, senso comune, intuizione rapida e sicura, umanità profonda, regalità”.

Gaston Doumergue, ex presidente della Repubblica Francese, sosteneva che, dopo aver tenuto le prime conferenze con molta freddezza, aveva migliorato il sistema diventando più convincente con una commozione più percettibile. In questo modo, pur parlando da solo al microfono, aveva la sensazione di vedere tutti i suoi potenziali destinatari.

L’assenza di pubblico è proprio la remora che orienta, se non condiziona, l’operato dello speaker. Nel bene e nel male la presenza di interlocutori, come per esempio a teatro, mette nella condizione di comprendere il grado di recepimento e, magari, di ritarare il taglio comunicativo. Poi qualcuno ha ben pensato di elementarizzare il tipo di linguaggio affinché fosse compreso da tutti. Paul Rebaux, scrittore, critico letterario e altro, riteneva che si dovesse pensare ad uno stile speciale per la radio, prossimo al “meccanico”, figlio diretto dell’epoca del fonografo e della radio.

Niente periodi lunghi, né frasi accidentali ma frasi corte, semplici e, magari, tante ripetizioni. Secondo lui bisognava tenere conto di avere a che fare con un pubblico infinito, mediocremente colto, pieno di buona volontà. Ad esso bisognava rivolgersi non come degli iniziati, ma come a dei bimbi, a brave persone, docili, pazienti ed ignoranti.

Non sarà mica che qualche rappresentante delle nostre Istituzioni abbia preso alla lettera gli insegnamenti del Rebaux per applicarli ai giorni nostri?